Gianluca Marziani

KULT – avanguardie creative

La terracotta policroma è il materiale prediletto anche da Paolo Cassarà. Se però Schmidlin predilige il campo ristretto sul viso, Cassarà si allarga sui corpi per farli dimagrire come filari umani alla Giacometti. Un giusto padre storico per ripartire dal grado zero del corpo contemporaneo. Cassarà racconta uno spaccato allargato della normalità cittadina. Dal rapper alla ragazza elegante, dal giocatore di basket al corpo femminile che stuzzica l’adrenalina, i suoi personaggi comuni stanno qui. immobili come in una fotografia dove i fondali piatti (ben visibili nelle foto dette sculture) annullano ogni contesto. A noi immaginare storie attorno ai fisici che conosciamo in decine di cognomi e passanti, in vestiti toccati o sfiorati, nelle facce simili a tante altre. La vita normale vive in tante sculture tra il mondo e la nostra prospettiva culturale.

Achille Bonito Oliva

Imprimatur

L’Imprimatur, per definizione, era in passato il segnale pubblico che il sistema politico e sociale dava di accettazione per un prodotto della mente. Imprimatur non soltanto autorizzazione dell’autorità religiosa, ma anche approvazione di un manufatto culturale da parte dell’autorità civile o della censura.

In questo caso il titolo della mostra Imprimatur designa il riconoscimento da parte di uno dei protagonisti del sistema dell’arte, il critico, di un panorama di artisti giovani internazionali inediti che hanno appena sfiorato gli spazi espositivi pubblici e privati.

Nell’articolato contesto dell’arte attuale la mostra è un mass-medium che pubblicizza l’accettazione dell’opera da parte del corpo sociale e dell’interno sistema dell’arte.

L’Imprimatur del critico trasforma questa accettazione, il mass-medium, in un inevitabile e spettacolare ready-made collettivo. La firma del critico diventa l’autografo che garantisce la cornice, l’evento pubblico dell’esibizione dell’arte.

L’arte di Imprimatur tende a riconoscere come proprio contesto una sorta di stato mondiale già esistente sul piano della tecnica, come afferma Ernst Junger. Dove non esiste un centro, piuttosto un campo continuamente forzato dalle periferie.

Un mondo a costellazione, secondo la definizione di Norbert Elias, ben rappresentato nell’arte dalla doppia polarità della transavanguardia calda e fredda. La creatività si esprime senza più l’egemonia di un linguaggio forte o la prevalenza influente di un unico mercato.

Geograficamente l’arte tenderà ad una strategia ambigua di movimento ed omologazione, seguendo la, legge fisica della deriva dei continenti, per la quale si riduce la distanza tra di essi fino a sfiorare la catastrofe per collisione di terre ancora separate dalle acque degli oceani: l’arte contro il 2000. Il movimento porterà probabilmente alla crescita di un processo comune di alfabetizzazione visiva di popoli lontani tra loro, ma ravvicinati telematica mente dai satelliti.

Nello stesso tempo tale alfabetizzazione d’immagine, per quanto concerne l’arte, creerà un corto circuito tra codici locali e internazionali. La contaminazione costituisce il carattere prevalente dell’arte che va contro il 2000, fomentata dalla velocità di circolazione dei vari codici visivi tra i diversi continenti dell’Europa, America, Africa, Asia, Oceania. Un ventaglio di stili contestualmente presente e funzionante in un unico contesto, in cui agiscono ed interagiscono artisti come Rosin, Delle Chiaie, Anzalone, Bottinelli Montandon, Fermariello, Di Giulio, Anselmetti, Kennedy, Grunert, Colazzo, Corte, Milanova, Galante, Thorel, Cassarà, Sacconi, Samorè, D’Angelo, Gazzola, Filippetta, Battisti, Raggio, Rosso, Berardinelli, Bortone, Delli Santi, Chiodi, Shimizu, Nido, D’Ercole, Mali Wu, Li Ming Sheng, Madhu Kant, Bialecka, Mazzoni, Ceni, Buzzi, Toderi, Galbiati, Kitchou.

In questo senso l’arte conserva la sua qualità di produrre forme espressive capaci di documentare la condizione dell’uomo alla fine del XX secolo improntata necessariamente ad una forma di neo-austerità, l’unica possibile nel dissidio elementare nord-sud, occidente e oriente. Acquista anche l’involontario attributo di allarme sull’omologazione conseguente alla circolazione della oggettistica artistica. D’altronde è nel suo destino essere problematica ed ambigua. L’accelerazione impressa dal sistema ne segnala il consumo e implicitamente il pericolo della fine, ma anche un’elasticità che ne rinvia continuamente la morte.

In quest’ultimo decennio del ventesimo secolo le problematiche dell’arte trovano uno scenario planetario segnato da connotazioni capaci di incidere sull’immaginario collettivo: la nascita, perversamente umanizzante, della pubblicità biodegradabile in America; la televisione realizzata, falsamente a misura del consumatore, con una preferenza produttiva per la moda, l’architettura e il design, in Giappone; la possibilità di utilizzare un modello dell’arte in scala reale per una protesta sociale come quella, trasmessa via satellite, dei contadini francesi che hanno invaso con il grano gli Champs Elysées trasformando lo spazio monumentale di Parigi in spazio naturale ed agreste.

«Dove il mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze e dei nostri desideri per divenire l’oggetto della libera curiosità e della contemplazione, lì iniziano l’arte e la scienza. Se cerchiamo di descrivere la nostra esperienza all’interno degli schemi della logica, entriamo nel mondo della scienza; se, invece, le relazioni che intercorrono tra le forme della nostra rappresentazione sfuggono alla comprensione razionale e pur tuttavia manifestano intuitivamente il loro significato, entriamo nel mondo della creazione artistica. Ciò che accomuna i due mondi è l’aspirazione a qualcosa di non arbitrario, di universale» (Einstein)

In un universo replicato elettronicamente, la tecnologia, protesi spettacolare della scienza, addomestica tutto il reale, naturale ed artificiale, tramutandolo nel proprio correlativo oggettivo. L’arte, nel suo pluralismo linguistico, si pone come istanza problematica e creativa, capace di filtrare in un mondo ormai abitato stabilmente dalle ombre.

Luca Beatrice

Trance Italia XPress

Il mondo di Paolo Cassarà è popolato dagli stessi personaggi che percorrono le nostre stesse strade, a scuola, alla fermata dell’autobus, in ufficio, al bar, nei locali notturni, allo stadio. Figure di terracotta policroma, minuziosamente dipinte come in un contemporaneo capodimonte, il teatro della vita, i luoghi comuni della cultura giovanile. Quasi tutta la musica di oggi va bene per Cassarà, dal metallo alla disco al brit pop ma soprattutto ragga e hip hop. Cinque cd da mettere nel portatile: Temples of the Boom, dei Cypress Hill, One Hot Minute dei Red Hot Chili Peppers, qualunque cosa dei Public Enemy, l’ultimo Genius GZA, ed anche Sale di Mao e la Rivoluzione. Da leggere va bene il nuovo romanzo italiano di Caliceti, Scarpa, Brizzi, con qualcosa di Banana Yoshimoto. Il film più giusto, L’odio di Kassowitz. Da bere, cuba libre con tanto Bacardi.

Corrado Levi

I titoli delle piccole scene a tutto tondo in terracotta policroma di Paolo Cassarà sono importanti per ciò che evocano:

Gisella, Gisellina, Ragazzo alla fermata, Skin Head, Demetra, Punk Letteratura italiana, Andrea, Bassista New Wave, Rasta, Pusole, Diego, Interno, Anno, Federico, Hard Rock Metallaro, Prospero, Studente, Pasquale, Hare krishna, Rapper, Ultrà Juventus, Ultrà Fiorentino, Al biliardo, Mario, Grazia, Moro, Sig.ra Esposito, Giocatore di pallacanestro, Tyaden, Bar Magenta, Domenico, Il Maratoneta, Monica, Pensieri d’amore, La signora borghese, Ragazza in spiaggia, Ragazzo Cubo, Lottatori di Sumo, Mina, Free Love, Istante, Bombolo, Sviatoslav Richter, …

Come una commedia umana di figure del mondo d’oggi.

È già singolare che un giovane abbia uno sguardo analitico e a tutto tondo.

La suo appartenenza d’età e di scelta alle cose rappresentate si rivela nella precisione dei particolari, lacci di scarpe da ginnastica, stecche di biliardo, palo della fermata, jeans stretti e lisi, atteggiamenti, gesti precisi al punto da sfiorare I’humour, da darci un più di informazioni.

Così nel lavoro di Paolo Cassarà si accumula, scena dopo scena, uno tipizzazione dello sfuggente apparenza mondana d’oggi, la cui scala ridotta rende colloquiale.

E da qui I’artista muove due pedine, come pedali fissi che lo rendono vincente, I’erotismo e la tenerezza, due modi di relazione a partire da sé all’inverso di un mondo di apparenza.

Per questo le favole dello sua commedia ci catturano, ci tentano a cavallo tra lo sguardo e il sentire.

Corrado Levi, Gennaio 1998, in Paolo Cassarà. Sembianze Corporee, a cura di Alberto Fiz, catalogo della mostra, Galleria Manuela Nanni, Milano 1998.

Alberto Fiz

Le pop model di Cassarà

L’arte contemporanea partecipa alle sofferenze del mondo.

Sempre più spesso rappresenta la dissoluzione dei corpi, i disastri delle manipolazioni genetiche, o il senso di profonda inquietudine verso un sistema dominato dall’artificialità del reale dove tutto appare manipolabile in una progressiva perdita di senso,

In un sistema così congeniato, parrebbe fuorviante occuparsi di Paolo Cassarà, uno scultore che, all’apparenza, si muove, anzi pattina, sulla superficie e parrebbe divertirsi a inseguire i valori effimeri proposti dalla moda.

Parafrasando Andy Warhol, si potrebbe dire che non c’è nulla dietro alla superficie.

Ma è proprio la superficie che ci interessa dal momento che siamo in presenza di un artista che non parte dall’ideologia ma dalla forma e che non teme di comunicare allo spettatore sensazioni tattili e voyeuristiche.

Non ci sono simboli o astrazioni, allusioni o significati reconditi nel lavoro di Cassarà.

Tutto si sviluppa davanti ai nostri occhi senza bisogno d’interrogarsi sulla liceità o meno di riprodurre (imitare?) la realtà. Cassarà, insomma, non cerca I’artificio. Lo Trova. Lui esegue le sue sculture policrome in terracotta secondo una tecnica antichissima e quasi inconsciamente approda al postmoderno. La ragione è semplice: lo scultore non realizza

figure ma, semmai, oggetti figurali. Sembianze corporee, appunto, come recita il titolo di questa mostra dove tutto ruota intorno all’apparire e non all’essere.

Come ha scritto lo studioso francese Henri Lefebvre, “nella pratica, gli oggetti divengono segni e i segni oggetti” in un continuo spostamento dei significati primari. Se in una prima fase del suo lavoro Cassarà si poneva come obiettivo quello di raffigurare I’universo giovanile in maniera realistica, ben presto le intenzioni documentane sono venute meno e le sue sculture hanno iniziato ad avere una vita autonoma rispetto al loro autore. Hanno occupato lo spazio e si sono imposte come stereotipi di una contemporaneità filtrata attraverso i media dove messaggi apparentemente senza codice sono apparsi fortemente connotati.

Come scrive Roland Barthes nel suo celebre saggio, Miti d’oggi, lo scopo è quello di percepire i messaggi nascosti, scritti in codice sulla lucida superficie dello stile e rilevarli come “mappe del significato”. Cassarà, insomma, conosce le regole della pubblicità e con i metodi soft e per nulla aggressivi della sua arte mette in trappola lo spettatore che si appresta, indifeso, ad osservare le sue sculture subendo il fascino delle forme, la morbidezza delle linee e la gradevolezza dei colori.

Come negli spot, tuttavia, nulla è reale e ogni cosa si stempera in un immaginario massmediologico che ha il suo punto di partenza nelle Marilyn di Warhol. E lui che per primo smaschera con cinismo il sistema che stà alla base del consumo e arriva ad una progressiva neutralizzazione dell’immagine. Del resto, anche le donne di Cassarà sono neutre, prive di un’autentica umanità, in un’oggettualizzazione evidente del corpo femminile, androgino e filiforme. C’è qualcosa di politically correct nella sua ricerca e le sue composizioni plastiche paiono trovare un riscontro teorico nel saggio di Gilles Lipovetsky, La Terza Donna, in cui si annuncia la nascita di una nuova creatura femminile. A questo proposito, il filosofo francese spiega in un’intervista come “per la donna il codice della magrezza sia divenuto inseparabile dalla seduzione: è I’espressione della volontà di controllare il proprio corpo e del declino di prestigio della maternità. Vincere la battaglia per mantenersi in linea consente paradossalmente di ridurre lo scarto tra il maschile ed il femminile”,

Non è molto lontano da questa tesi nemmeno il teorico del post human, Jeffrey Deitch che ha affermato come nella realtà di oggi “si tenterà di alterare I’io anziché curarlo”.

Ed osserva ancora: “Noi siamo probabilmente i testimoni della dissoluzione del modello psicologico freudiano con la sua enfatica accentuazione delle esperienze infantili e dell’ambiente familiare”.

Di fronte ad una realtà dove il corpo non è altro che la parte più sofisticata di un meccanismo studiato in laboratorio, I’artificio è ormai divenuto la regola nell’ambito di un superamento dei vecchi concetti umanistici. L’intervallo tra la vita e I’arte all’interno del quale desiderava agire Robert Rauschenberg sembra non esistere più in una sempre più entusiastica adesione ad un immaginarlo cibernetico.

È, dunque, chiaro a questo punto come Cassarà agisca all’interno dell’artificio senza dimenticare la lezione di Jeff Koons o di Charles Ray. Se il primo ha ricreato un nuovo spazio della conoscenza utilizzando elementi kitsch e frammenti della cultura popolare, i giganteschi manichini di Ray pongono I’uomo di fronte ai suoi irrisolti complessi sessuali, Ma il post human espresso dalle opere di Cassarà è dolce, sensuale, espressamente non violento e, per questo, sarebbe un errore pensare che I’inseguimento dei modelli hollywoodiani rappresenti uno dagli obiettivi dell’artista siciliano.

Come suggerisce lui stesso, ai suoi esordi avvenuti all’inizio degli anni Novanta, ha osservato con attenzione le opere di un’artista troppo spesso trascurato come Athos Ongaro, un “robusto centauro perduto

nella società postindustriale” come I’ha definito Saverio Vertone. Con Ongaro, Cassarà condivide la stessa sensibilità verso la materia e la medesima tensione verso un universo all’apparenza incontaminato in cui la forma non intende allontanarsi dai codici linguistici acquisiti. In entrambi i casi siamo di fronte ad opere che giocano con I’epidermide.

Solo che, mentre Ongaro vira verso la dimensione mitologica, Cassarà sceglie la strada della passerella e realizza una serie di top model. Anzi, di pop model. Icone, feticci irraggiungibili, le sue donne sono immateriali, evanescenti, cibernetiche, in una manipolazione ironica delle forme dove alle visioni apocalittiche di Damien Hirst o di Andres Serrano, Cassarà replica semplicemente con una serie di figure femminili in stile barbie dalle gambe o dalle braccia troppo lunghe. Come emerge da composizioni recenti quali Sospesa nel vuoto o Nudo di donna del 1997, dove si attua una progressiva trasformazione del corpo in direzione esattamente opposta rispetto alla logica espressionista.

In questo caso, I’esasperazione avviene nella direzione voluta dallo star system assecondando i modelli Schiffer o Campbell. Peccato, però, che tutto ciò risulti ridicolo e paradossale nell’ambito di una ricerca che pur non nascondendo una sua intrinseca piacevolezza, appare straniante e non priva di un sottile velo d’inquietudine: come in una favola, è tutto un sogno e i corpi tracciati da Cassarà non sono altro che una raffinata proiezione dell’innaturale.

Cherchez la femme, dunque, e buona fortuna.

Alberto Fiz, “Le Pop Model di Cassarà” in Paolo Cassarà. Sembianze Corporee, a cura di Alberto Fiz, catalogo della mostra, Galleria Manuela Nanni, Milano 1998.

Dick Hebdige, Sottocultura, Costa & Nolan, 1990, p. 18.

Intervista a Gilles Lipovetslly in L’Espresso del 27 novembre 1997, pag. 119.

Jeffrey Deitch, Post Human, catalogo della mostra esposto nei musei di Losanna, Rivoli, Atene, Amburgo, 1992-1993, p.147.

Saverio Vertone, catalogo Athos Ongaro, catalogo galleria Carini, Firenze l988.

Christian Leigh

Rispetto per la strada

Il Lessico di Paolo Cassarà: da “Androginia” a “Zsa Zsa Gabor”

A

Androginia

Le sculture di Paolo Cassarà di qualunque dimensione siano – grandi, piccole, a grandezza naturale o ancora più grandi -, sono spesso

androgine, come è naturale quando il riferimento scelto è lo stile di vita della strada. Assomigliano ai giovani dell’ultima generazione, quelli che sono la progenie degli hippie e dei loro figli, e che frequentano le strade di tutte le più grandi città del mondo, New York,

Los Angeles, Roma, Parigi, Tokyo, Hong Kong: si accendono la sigaretta dal ragazzo accanto, e poi se la passano, bevono dallo stesso bicchiere di birra, si toccano e si baciano. Per uno strano effetto sfumano gli uni negli altri ragazzi coi capelli lunghi e ragazze coi capelli corti, e distinguerli diventa problematico. Passando accanto a loro in macchina, spesso non si riesce a capire di che sesso siano. La potenzialità offerta da questa liberazione dalle etichette sono state sfruttate dagli artisti Pop dalla fine degli anni ’60 fino ad oggi. David Bowie, Mick Jagger, Joan Jett ed altri ancora hanno ostentato una sessualità senza frontiere, sia nel modo di presentarsi, sia attraverso le loro dichiarazioni. Recentemente questa tendenza si è andata affermando all’interno della cultura “grunge”, come dimostrò Kurt Cobain quando, durante un programma televisivo, baciò a lungo sulla bocca il chitarrista dei Nirvana, per protestare contro la discriminazione

degli omosessuali. Mi ricordò che circa 15 anni fa, in quello stesso programma, Jagger aveva fatto lo stesso con Peter Tosh, ma usando di più la lingua.

B

Boredom (Noia)

Le espressioni sui volti dei soggetti delle sculture di Cassarà tendono a essere simili a quelle che si leggono su migliaia di facce per la strada, scoppiate, vuote, annoiate a morte. Niente ci impressiona più, e questo è proprio quello che Cassarà intende registrare, la disintegrazione della lente, con il fuoco che ora si sposta sul soggetto – i famosi quindici minuti di celebrità di cui parlava Andy Warhol. A differenza degli artisti americani suoi contemporanei – Jeff Koons, Paul Mc Carthy, Daniel Oates -, di Xavier Velhan, artista di installazioni, e dello scultore inglese Gavin Turk, le cui opere assomigliano, formalmente, alle sue, Cassarà si ritrae. Egli non sceglie immagini di gratificazione sessuale, di impatto sensoriale, di industrializzazione culturale, di violenza, di trame mitologiche. La gente è ritratta semplicemente come lui la vede, in un certo senso oggettivamente, e non come pensa che noi ci aspettiamo di vederla, come i brutti ceffi e le gattine sexy dei film americani degli anni ’50 e dei film porno-soft italiani. Cassarà non ha paura di trasmetterci la noia della strada esattamente quale essa è, poiché sa che è anche la nostra noia.

C

Larry Clark

Dopo la morte prematura di Robert Mapplethorpe, di cui ha ereditato lo scettro, Larry Clark merita di essere considerato il più importante fotografo di questa generazione. Clark emula non solo il contenuto delle opere di Mapplethorpe, ma anche il tono. Quello che mi colpisce soprattutto in lui è la capacità di fotografare scene di argomento sessuale senza apparire eccessivamente voyeristico. Mi sembra anzi che egli eviti di proposito di realizzare immagini erotiche, introducendo nell’inquadratura un senso di pericolo imminente, mai predominante, ma sufficiente ad equilibrare e attenuare l’impatto emotivo. Altra cosa importante è che le sire foto non sono nemmeno orrorifiche. Se le opere di Mapplethorpe sembrano costruite in maniera teatrale, a Clark va invece riconosciuto il merito di porsi come personaggio nella narrazione che egli osserva e ritrae, anche se nella realtà probabilmente avveniva il contrario. Vedo le opere di Cassarà collegate a quelle di Clark in virtù della comune abilità di far risultare un’umanità reale, sullo sfondo di un ambiente che è fin troppo facile banalizzare e condannare. Clark e Cassarà non ritraggono i loro soggetti come cliché anonimi, il che pure sarebbe stato assai facile. Il giovane fotografato da Clark mentre ha un erezione e un ago infisso nel braccio non è un punk qualunque, allo stesso modo che il giovane punk scolpito da Cassarà non è necessariamente il ragazzo con I’erezione e l’ago nel braccio.

D

“Drugstore Cowboy”

La più bella battuta sui drogati della storia del cinema viene pronunciata in un film di Gus Van Zandt. Neanche quelle in “Easy Rider” possono reggere il confronto. L’ultra sexy Kelly Lynch si sfila il top di velluto facendolo scivolare lungo il fondoschiena, e poi si lamenta con fare seducente, mentre si muove sopra Matt Dillon, che a gambe divaricate non dà alcun segno di reazione: “Tu non mi scoperesti mai, se non fossi io a prendere l’iniziativa”. Penso che le cose vadano proprio così, o quasi. Il film mi fa venire in mente qualcosa che un mio amico immancabilmente dice, ogni volta che rompe con uno dei suoi amichetti drogati. Dice che gli uomini diventano drogati per poter avere una scusa per non scopare e per non farsi il bagno. La cosa paradossale è che proprio questa ritrosia, secondo lui, li rende comunque attraenti e sexy, con il sudore e il cattivo odore a fare da ciliegina sulla torta e ad esaltare la loro immagine di non voluta mascolinità. Non c’è niente che eccita certe persone come la consapevolezza di non poter avere l’oggetto del loro desiderio. A me non è mai successo, perche mi sembra infinitamente più divertente ottenere ciò che si vuole.

E

Elvis a Las Vegas

Elvis aveva ormai sparato quasi tutte le sue cartucce all’epoca in cui si esibiva a Las Vegas, ma in qualche modo il suo completo di poliestere bianco. con le borchie d’argento e d’oro sull’enorme colletto della camicia, lo faceva sembrare una specie di Liberace del rock-and-roll, e il suo aspetto aveva ancora un certo impatto visivo. Quello che Elvis era diventato nell’ultima fase della sua carriera, in quegli spettacoli senza vita era talmente in contrasto con le origini del suo personaggio e le radici della musica nera che aveva saccheggiato e depredato, che sembrava quasi voler riscattare in termini di punk rock la propria condizione pietosa e le contraddizioni della propria decadenza. E su immagini contradditorie di questo tipo che sono cresciuti Cassarà e la sua generazione, spettatori della decadenza di quei miti del rock che da bambini erano stati loro presentati come dei miti del rock, anche se avevano l’aspetto di un Dean Martin. Anni dopo, si sarebbe verificato lo stesso, con il declino della controcultura degli anni ’70. Questa idolatria i cui idoli vengono continuamente demitizzati dalle prime pagine dei giornali scandalistici ha infine prodotto quella particolare ironia che caratterizza artisti come Cassarà ed altri della sua generazione.

F

Fashion(Moda)

L’uso della moda come elemento caratterizzante è qualcosa che Cassarà ben conosce e sa impiegare, in questo non dissimile dai mass-media, che pure saccheggiano a piene mani da tutti gli aspetti della cultura contemporanea e tanta influenza esercitano su Cassarà stesso. Mentre le espressioni sui volti delle sculture tendono a risolversi in una tabula rasa, inespressive e distanti come quelle dei bei ragazzi e delle belle ragazze nei locali, al contrario i vestiti che indossano ci dicono molto di più. Sfogliare una qualsiasi rivista maschile o femminile è un’esperienza che disorienta. Giovani appena usciti dalla pubertà sono agghindati come avrebbero sognato di vestirsi i loro genitori mentre guardavano i film di Fellini. Ancora una volta quello che colpisce sono i volti senza espressione, anche quando la messa in scena li raffigura morti e sanguinanti. Per le strade, la moda ci rivela ogni dettaglio, nel ghetto come in Madison Avenue, e quello che più sorprende è che mentre i giovani proclamano di voler difendere la propria individualità, sembrano poi ansiosi di annullare il proprio stile e il proprio gusto in un mare di conformismo. Li guardo e mi domando: chi ha venduto per primo a chi, e chi ha influenzato chi? È stata la moda a vendere ai ragazzi l’idea che si dovessero vestire in una certa maniera? È stata la strada a prendere l’iniziativa e poi la moda I’ha assecondata? Comunque sia, il conformismo genera uniformi, e le figure di Cassarà rivelano tutto di sè e della loro identità attraverso il loro abbigliamento.

G

Gangsta Rapp

Come potrà confermarvi un qualsiasi Snoop Doggy Dogg di strada, la chiave del successo del Gangsta Rapp e delle esibizioni per strada è I’autenticità, e se per scalare le vette delle classifiche di vendita e sopravvivere in strada è necessario far fuori un paio di persone, chi se ne fotte. Quello che noi bianchi troviamo interessante nel Gangsta Rapp – i ragazzi più delle ragazze, probabilmente – non è tanto un sentimento vicario di piacere nel vedere soddisfatti i nostri istinti omicidi (anche se questa componente e innegabile), quanto un innato senso di invidia. La capacità di parlare, di vantarsi addirittura di azioni proibite è qualcosa che i ragazzi bianchi non riuscirebbero mai a fare. Questi rapper raccontano di farsela con tante amichette, alle spalle delle loro ragazze, che ogni tanto riempiono di botte, di andare in giro a far rapine nei grandi magazzini, di dormire con puttane, di sparatorie (perfino tra di loro), e, quel che è più bello, di uccidere i padroni di casa. Un bianco ha problemi anche solo ad ammettere di non aver pagato I’ultimo affitto. Nelle sculture di Cassarà si avverte la tensione che c’è tra la gente che vive in strada e la gente che la strada la percorre solo per far ritorno alla sicurezza della loro casa. Come me. Ogni volta che esco a comprare il pane penso a Jeffrey Dahmer, eppure adoro “Naughty by Nature” (“Cattivo di Natura”), anche se evito di ascoltarlo di sera perché mi terrorizza a morte.

H

Hare Krishna

La più bella scultura finora realizzata da Paolo Cassarà è la statua grandezza naturale di un Hare Krishna. Ciò che rende quest’opera così importante, una sorta di mappa delle intenzioni e dell’opera globale di Cassarà, è che benché il soggetto scelto si presti facilmente alla parodia e al ridicolo, l’autore ha saputo conferirgli una evidente aura di dignità. Cassarà, che non è il tipo che racconta fiabe, non fa nulla in realtà per nobilitare questa figura, ma è proprio questo – direi – che rende l’opera così ben riuscita, e che in ultima analisi suscita in noi una partecipazione che non deriva né da un senso di affinità, né di distacco, ma come da una fusione dei due.. Un artista minore, e certamente un artista americano “corretto sul piano politico”, forse non avrebbe resistito alla tentazione di

rappresentare I’Hare Krishna come un santo, dignitoso e onnisciente. Cassarà non fa niente del genere. Al contrario, egli sceglie un personaggio ben conosciuto e disprezzato dall’uomo della strada, e lo rappresenta realisticamente. Guardando l’Hare Krishna siamo colpiti dal suo realismo, nel senso che Cassarà l’ha fatto umano, non ne ha fatto né un santo né uno zelota, ed è proprio questo che dà alla scultura un particolare vigore.

I

Italia: arte di piazza

Tutti odiamo quelle statue che si vedono nelle belle piazze d’Italia e di altre città europee ed americane. Guardando le opere di Cassarà mi ritorna in mente la bruttezza di quei monumenti eretti alla memoria di “grandi uomini”. Sarebbe bello, anche se utopistico, vedere città che commissionano sculture a Cassarà per ingentilire le loro piazze più importanti. I suoi monumenti sarebbero certamente dedicati alla gente che usa le strade, non a uomini che hanno distrutto altri imperi per procacciarsi quel po’ di fama sufficiente a farsi dedicare un monumento alla memoria fatto di cattiva scultura ed epigrafi banali, che omettono ciò che più importa, ossia la verità.

J

Jean Luc Godard

Pensate ai continui spostamenti di camera di Godard, silenziosissimi, da sinistra a destra, da destra a sinistra, da sinistra a destra, che affermano e riaffermano la presenza dell’autore senza interferire con ciò che si svolge davanti alla cinepresa. Gli attori fanno quello che fanno e la macchina da presa fa quello che fa, e ogni tanto i due si incontrano. Godard ha detto: “Gli altri fanno documentari, io filmo delle storie”. Ma stava parlando dei suoi documentari.

K

Karaoke

Prendi il microfono, canta sulla base musicale della tua canzone preferita e puoi essere una star per un numero di minuti anche inferiore a quello predetto da Warhol. La scena di karaoke che mi è rimasta più impressa è quella di un gruppo di uomini di affari di Hong Kong che si erano riuniti in novembre per una festa di compleanno. Uno di loro, dopo essersi allentato la cravatta e slacciato il colletto della camicia, si mise a cantare “l am a woman” con più sensibilità di quanta ne potrà mai avere Helen Reddy. Le sculture di Cassarà invitano lo spettatore a farsi tutt’uno con loro, a sperimentare i loro momenti migliori, come anche quelli peggiori. Invitano alla identificazione, ed è proprio questo che me le fece piacere la prima volta che le vidi in un magazzino pieno di opere di altri artisti. Mi hanno parlato e a me è venuta voglia di rispondere.

L

Sophia Loren

Se vi chiedete perché, lasciate perdere. Non sarete mai un vero italiano.

M

Il maschio – e i suoi sport preferiti

Se non esistessero gli sport cosiddetti “di contatto”, agli uomini mancherebbe un modo socialmente accettabile di esprimere le proprie emozioni, specialmente quelle che riguardano i rapporti con gli altri. Rabbia e attrazione le includo a pari merito, in questa equazione. Per questo motivo, e perché tutto quanto resta poi per lo più sottointeso, gli uomini amano lo sport con una intensità cui non arrivano nemmeno gli appassionati del cinema, e c’è un certo accanimento furibondo nella maniera in cui gli adulti affermano il loro diritto a occuparsi di quegli sport che li fanno sembrare più bambini – il che, credo, fa anche un po’ tenerezza. I calciatori di Cassarà sono grandi, importanti testimonianze della più grande passione dell’animale umano; egli comprende bene il ruolo che gli eroi del calcio giocano all’interno della cultura contemporanea, così bene da saper rendere il giocatore di calcio il più umano possibile, quasi a voler incoraggiare qualunque mitizzazione di questa figura.

N

Nirvana

Ecco di nuovo la primavera, tenera età in fiore; lui sa cosa vuol dire, vendi i piccoli in cambio di cibo, ne possiamo avere di più. L’acqua è così gialla. Io sono uno studente sano, e tu sei la mia vitamina. Cogli al volo l’occasione, sbrigati, sei tu che devi scegliere, non arrivare tardi. E dopo tutto forse sono io quello che ha colpa di ciò di cui si parla, ma non ne sono sicuro, sono così eccitato che non vedo I’ora di vederti, ma che importa. Che importa se è vecchio, non mi importa se sono senza cervello, scappa da casa tua. Bisogna avere la pelle avvelenata, cedi di un palmo, cattura un sorriso. Non ho mai incontrato un uomo saggio, semmai, una donna; devo trovare il modo di trovare un modo, forse è meglio che aspetti. Devo ancora inviare un ultimo messaggio speciale; quanto a difese, sono neutralizzato e castrato, che diavolo sto cercando di dire? Sono arrivato così in alto che mi sono graffiato a sangue. La seconda venuta è giunta ultima e da dentro l’armadio. Alla fine dell’arcobaleno e della tua corda. Non farti male, voglio un po’ d’aiuto per potermi aiutare, e lei è annoiata come me. Ho questo amico, sai che mi fa sentire vivo, e non ho rimorsi. E tutti gli animali che ho preso in trappola sono diventati miei cuccioli. Il nostro gruppetto è sempre stato e sempre sarà fino alla fine, quando si spengono le luci è meno pericoloso, eccoci qua, facci divertire, un mulatto, un albino, una zanzara, la mia libidine sì, sì, un rifiuto, al mio meglio sono al mio peggio, e per questo dono mi sento privilegiato; I’ho trovato a fatica, è stato difficile trovarlo, oh beh, comunque sia, non te ne preoccupare”.

O

L’Oscar

Le sculture di piccole dimensioni di Paolo Cassarà assomigliano molto alle statuette degli Oscar, disegnate nel 1927 dallo scenografo hollywoodiano Cedric Gibbons. Tutti ne vorrebbero una, e tutti, ogni tanto, fanno finta di averne una in mano davanti allo specchio,

quando sono soli e pronunciano dei commossi discorsi di investitura: “Desidero ringraziare mia madre…” Tenendone una in mano, chiunque si può sentire come Sally Field quando vinse il suo secondo Oscar nel 1985: “Vi piaccio. Vi piaccio veramente!”. Ovviamente si può anche scegliere l’approccio alla Marlon Brando, restarsene a casa e mandare un indiano fasullo al posto nostro a rifiutare il premio. Un Hurrà per Hollywood!

P

Pop Art

Molti sono dell’opinione che il motivo per cui I’arte Pop americana ha avuto immediatamente un grosso successo in Europa è che essa confermava i peggiori preconcetti dell’Europa sulla vacuità e il consumismo della società americana. Non è difficile comprendere questo atteggiamento, ma nello stesso tempo permane il dubbio che questo sia un giudizio troppo parziale, probabilmente giusto per Warhol, ma non per gli altri artisti del gruppo. Il mio artista pop preferito è sempre stato Roy Lichtestein, la cui bravura come critico d’arte è uguagliata soltanto dalla sua intelligenza nella scelta e nella resa dei soggetti. Mentre Rauschenberg, Ramos, Dine, Krushenik, Warhol e altri importanti artisti Pop hanno avuto una parabola luminosa e breve benché intensa, senza avere più nulla da dire dopo le prime opere, Lichtenstein fa tutt’ora quadri splendidi. Dai primi semplici quadri con i fumetti, passando per gli specchi e le scomposizioni a grosse spennellate, fino ad arrivare alla produzione più recente di quadri di “interni”, Lichtenstein continua a rivelarsi geniale. Non arrivo ad affermare che Cassarà è il Lichtentein italiano, ma di certo lo stile delle sue opere lo avvicina a Lichtenstein più che a qualunque altro artista pop, perché in esse manca quel cinismo esasperato che ha invece affascinato Jeff Koons e i giovani del gruppo NeoGeo. La Pop Art è stata il movimento che ha maggiormente influenzato Cassarà e in quest’ambito la sua opera si lega soprattutto a quella di Lichtenstein, anche se per altri versi può richiamare alla mente le sculture di Alan Jones, come pure le più riuscite di Richard Hamilton.

Q

Quentin Tarantino

(Interno di una Chevrolet del ’74, in movimento – mattino)

Una di quelle Chevrolet Nova a benzina del ’74, bianca e sporca, procede a gran velocità lungo una strada di Hollywood frequentata dai senzatetto. Davanti sono seduti due giovani, un bianco e un negro, entrambi vestiti con un completo nero da poco prezzo e cravatta sottile nera, e sopra un loden verde. Si chiamano VINCENT VEGA (il bianco) e JULES WINNFIELD (il negro). Jules è al volante.

Jules:…allora, senti un po’, mi vuoi parlare dei bar dell’hashish?

Vincent: Che cosa vuoi sapere?

Jules: Beh, l’hashish è legale là, giusto?

Vincent: Sì, è legale, ma non al cento per cento. Significa che non puoi entrare in un ristorante, arrotolarti una canna, e poi cominciare a fumartela. Puoi solo fumartela a casa tua e in certi posti.

Jules: Cioè nei bar dell’hashish.

Vincent: Si, e le regole sono queste: è legale comprarlo, è legale averne e, se sei il proprietario di un hashish bar, è legale venderlo. È legale portarlo addosso, il che poi non significa nulla, perché, senti questa, se i poliziotti ti fermano non possono perquisirti. I poliziotti di Amsterdam non hanno il diritto di perquisirti.

Jules: È fatta, amico. Che si fottano pure, io ci vado.

Vincent: Vedrai che sballo. Ma sai cos’è la cosa più divertente in Europa?

Jules: Quale?

Vincent: Sono le piccole differenze: la stessa merda che c’è qui c’è anche là, ma con qualche cosa di diverso.

Jules: Tipo?

Vincent: Beh, ad Amsterdam nei cinema si può comprare la birra, e nemmeno te la danno in un bicchiere di carta. Ti danno un boccale di birra, come ai bar. A Parigi, si può comprare una birra da Mac Donald. E sai come lo chiamano a Parigi il Quarter Pound al formaggio?

Jules: Avanti. come lo chiamano?

Vincent: Royale al formaggio.

Jules (gli fa eco): Royale al formaggio. E come chiamano il Big Mac?

Vincent: Big Mac resta Big Mac, ma lo chiamano Le Big Mac.

Jules: Come chiamano il Whopper?

Vincent: Non lo so. Non sono entrato in un Burger King. Ma lo sai che cosa mettono sulle patatine fritte invece del ketchup?

Jules: Che cosa?

Vincent: Maionese.

Jules: Accipicchia.

Vincent: Li ho visti con i miei occhi. E non ne mettono solo un po’ nel piatto. Cazzo, ce le annegano dentro.

Jules: Uuuhh.

R

Rispetto

Non avrete mai la sensazione che Cassarà guardi con condiscendenza le sue sculture, e proprio questo è ciò che le distingue dalle opere dello stesso genere prodotte da altri artisti. Cassarà ha rispetto per la sua gente e per la strada in cui essa vive. Questo suo atteggiamento rivela una visione politica intelligentemente scaltra, esposta con un distacco che è ben lontano dalla retorica, e che fa il successo delle sue opere. Cassarà, ad esempio, evita di far sculture che ritraggano la “gente di strada”, poiché sa che così facendo dovrebbe in qualche modo raffigurare la loro condizione e il loro stato emotivo, il che è probabilmente impossibile senza una certa dose di banalizzazione, visto I’ambiente; è quello che accade quando tante ricche star della musica pop girano dei video su quel che si prova ad essere dei senzatetto. Cassarà evita di fare palesi dichiarazioni politiche, concentrando la sua attenzione sulla strada mediante inclusioni ed esclusioni. Se qualcosa manca nel mondo di Cassarà, ciò significa che esso è escluso dalla possibilità di comprensione della maggior parte della gente, e dunque tale immagine deve essere lasciata fuori, in quanto ogni presenza può solo essere significativa.

S

’70 Culture (La cultura degli anni ’70)

Ricordate Pam Grier? Le parrucche colorate stile afro? I grossi lampadari con gli specchietti delle discoteche? “Love To Love You Baby”? “Le gioie del sesso”? Gatto Silvestro? I pantaloni a zampa di elefante? Gli anelli con le pietre che cambiano colore? La moquette a pelo alto? Il “Plato’s Retreat”? Le spille con il simbolo della pace? I vestiti pacchiani? Lo “Studio 54”? L’album di musica disco di Ethel Merman? Le scarpe con le zeppe?

T

I “Talk Show” televisivi

Oprah, non so proprio cosa fare”.

Si, cara. Lo so che è difficile parlarne, ma cerca di essere forte: ti prego cerca di non piangere”.

Va bene, cercherò. Lo ha fatto di nuovo: ogni volta che promette di non farlo più, va a finire che mi accorgo subito che lo ha fatto di nuovo”.

Come?”

Cosa?”

Da cosa te ne accorgi?”

Piccole cose. Ad esempio trovo dei peli pubici che non sono del mio colore dappertutto, nelle mie cose capisci… sul reggiseno, nelle mutandine”.

Allora, Benjamin, che cosa hai da dire su questo?”

Beh, mi piace indossare biancheria intima femminile. Penso che lei dovrebbe accettarlo”.

Và all’inferno. Vorrei non averti mai sposato. Tu sei malato”.

U

London Underground

Meglio nota come “the tube”, la metropolitana di Londra è la più profonda del mondo, e collega tutta Londra. Molti bracci della metropolitana sono stati usati durante la guerra come rifugi antiaerei, e oggi offrono riparo a molti senzatetto, ragazzi e non. I gabinetti sono da evitare assolutamente, a meno che non siate in cerca di sesso veloce e anonimo dopo il lavoro, e non vogliate quindi fare il giro delle sale da tè, tra le quali quelle che vanno per la maggiore sono a Piccadilly Circus e a King Cross.

V

Robert Venturi

Venturi è stato chiamato il padre del post Modernismo, anche se ormai sarebbe ora di chiamarlo nonno. Posso dire senza tema di smentita che opere come quelle di Cassarà non avrebbero mai visto la luce, né il Pop sarebbe stato accettato ai suoi esordi se Venturi non avesse così brillantemente spianato la strada con il suo polemico – anche se oggi è difficile considerarlo polemico – e importantissimo saggio “Complessità e contraddizione in architettura”, che risale agli inizi degli anni ’60. In quest’opera sosteneva la necessità di un architettura eclettica e contraddittoria, e dava credito alla rapsodicità della ispirazione piuttosto che alle pulite tendenze geometriche del Modernismo, con il didatticismo insito nelle sue linee rette. La decisione con cui esponeva le sue idee rese impossibile un ritorno al passato: più tardi, nel corso della sua carriera, Venturi – insieme a Denise Scott Brown – si mise a studiare Las Vegas e Levittown, e mostrò per la Strada un rispetto che fino a quel momento le era stato negato.

W

Andy Warhol

Re Warhol ha esercitato la sua influenza su Cassarà come su qualunque altro artista della sua generazione e delle tre che li separano. Anche gli artisti dell’Arte Povera, la famiglia reale italiana, non possono negare che la loro arte derivi, in parte, dalla Pop Art, anche se – e lo stesso vale per l’Arte Concettuale – si è trattato piuttosto di una reazione ad essa. La cosa positiva che Cassarà sta facendo con I’orrido fantasma di Warhol e con il corpo bastonato della Pop Art, è estrarne il pungiglione tagliente ribellandosi al suo cinismo, cosa di cui in questa congiuntura, vi è un disperato bisogno. Se si osserva a lungo un gruppo di sculture di Cassarà, si prova la stessa impressione di quando si guarda il film “Chelsea Girls” di Warhol. Si continua a pensare che qualcosa di importante è sul punto di accadere, ma poi ci si rende conto che non succederà nulla e che l’importanza dell’opera scaturisce proprio da quell’assenza. Warhol l’ha spiegato al meglio: “Non c’è niente dentro. Io sono prolisso e superficiale, e adoro annoiarmi”.

X

X, nome in gergo per “Extacy”

Droga da designer, popolare nei locali. Irrevocabilmente collegata alla House Music. Nascosta nelle tasche di qualcuno dei soggetti di Cassarà.

Y

Yesterday

La mia canzone preferita dei Beatles, ed è stata incisa pressapoco quando Cassarà è nato. Se lo prendiamo come punto di riferimento temporale, il periodo dei Beatles, in quanto fenomeno musicale, precede la maggior parte degli scenari delle sculture di Cassarà di una generazione e mezzo. Ieri, oggi, e domani.

Z

Zsa Zsa Gabor

Negli ultimi anni Zsa Zsa Gabor è passata dal ruolo di bellezza sfiorita con molti matrimoni alle spalle, le cui interviste televisive suscitavano minor eco che non i suoi numerosi interventi di chirurgia plastica e il suo cattivo gusto in fatto di uomini e di abiti da sera, a quello di attivista su diversi fronti: improvvisi attacchi contro la polizia – che I’hanno portata più volte in prigione -, battaglie in tribunale contro Elke Sommer, dichiarazioni pubbliche di bancarotta. ZsaZsa Gabor è l’esempio di ciò che sono disposte a fare alcune persone pur di attirare I’attenzione, se un tempo avevano conosciuto le lusinghe della notorietà. Patetica e triste nello stesso tempo, è diventata un simbolo, per i giovani, di ciò che non vorrebbero mai arrivare ad essere. Non vedrete mai una ZsaZsaGabor tra le sculture di Paolo Cassarà.

(Traduzione di Maria Elena Ruggerini)

Christian Leigh, Rispetto per la strada. Il Lessico di Paolo Cassarà: da ‘Androginia’ a ‘Zsa Zsa Gabor’” in Paolo Cassarà. People, a cura di Christian Leigh, catalogo della mostra, Ruggerini & Zonca, Milano 1995.

Alessandro Riva

Semidee in forma seriale

Paolo Cassarà è stato tra i primi, in Italia (assieme a qualche occasionale compagno di strada come Paolo Schmidlin) a lavorare con una tecnica fino a ieri considerata obsoleta ma oggi via via sempre più rivalutata come la terracotta policroma con un’aderenza assoluta, al limite dello spaesamento, rispetto ai temi, alle sensibilità e alle poetiche della società contemporanea occidentale.
Cassarà ha infatti deciso, fin dai primi anni Novanta quando cioè era poco più che ventenne, di rappresentare simbolicamente, attraverso sculture di diverse dimensioni (dalla misura “da tavolo”, tutt’oggi una delle sue preferite, fino al ritratto a grandezza naturale o alle grandi composizioni con più personaggi), di rappresentare simbolicamente, dicevo, il mondo di oggi, visto con gli occhi di un ragazzo come tanti, senza schermi ideologici né paraocchi concettual-filosofici.
La fortuna critica e commerciale di Cassarà (e anche, paradossalmente, in certi ambienti, la sua sfortuna, in tempi di tragica sottomissione dell’arte ai pregiudizi ideologici cui trent’anni di avanguardia l’hanno fatalmente costretta) è stata proprio quella di unire una perizia tecnica che è andata via via affinandosi col passare del tempo con un’apparente e assolutamente spontanea “leggerezza” sia dal punto di vista contenutistico che da quello stilistico.
Fin dai primi anni Novanta, infatti, l’artista ha raffigurato ragazzi e ragazze qualsiasi quelli della sua generazione, coi quali viveva, scambiava esperienze e idee e spendeva serate e nottate palesemente “seriali” e stereotipati (e tuttavia ognuno di loro unico, originale, profondamente diverso dagli altri, come solo sanno essere, checché ne dicano i soloni di turno e gli psicologi da strapazzo, gli adolescenti d’ogni tempo) nei loro vestiti alla moda, con gli walkman alle orecchie, i pattini, le nike o gli anfibi ai piedi, i jeans cascanti sul cavallo o le minigonne superattillate, di volta in volta in bilico su un’ideale (e quanto mai simbolica) linea di demarcazione stradale o appoggiati al bancone di un bar (guarda caso, il Magenta, storico locale milanese che rimane, generazione dopo generazione, il simbolo vivo di un passaggio esistenziale, di quell’attraversamento ambiguo ed elettrizzante che si insinua tra la seconda adolescenza e la prima giovinezza, con tutto il suo corredo di esuberanza da alcolici, droghe, slang, amicizie, tradimenti e corteggiamenti incrociati o mancati); o ancora ripresi in atteggiamenti “proibiti” (come in un casto bacio tra ragazze o in una silenziosa meditazione sadomaso) ma senza mai facili scandalismi d’effetto, o in atteggiamento sospeso, di solitaria ricognizione esistenziale, davanti a una tazza di caffè sul letto ancora sfatto (dopo una notte d’amore o dopo una notte d’insonnia per amore?), piuttosto che in piedi di fronte a un immaginario specchio o nel silenzio della propria camera.
E poi ancora attraverso i mille stereotipi che la cultura giovanile ci ha propinato in questi decenni: dal post punk allo skin heads, dallo studentello che torna da scuola al new global, dalla ragazzina innamorata al videomaniaco, dal giovane integrato con tanto di cellulare all’orecchio alla modellina vestita Versace.
“Per i vestiti, le scarpe e gli accessori ma anche per gli atteggiamenti e il carattere dei miei personaggi”, ha detto l’artista in un’intervista, “guardo soprattutto alle scene che vedo per strada, nei bar o nel metrò, di giorno e soprattutto di sera. Ma anche le riviste di moda, soprattutto quelle femminili, sono un’ottima fonte di ispirazione per il mio lavoro”.
Cassarà ha, in questo modo, affrontato prima di altri temi e modi stilistici che, col tempo, da minoritari sarebbero poi diventati, piano piano, un sentire comune dell’arte dei nostri giorni: come l’attenzione a tematiche quotidiane, intime, di immediata aderenza alla nostra “banale” realtà di tutti i giorni con tutto il valore, anche sociale e politico (del resto non si diceva già negli anni Settanta che il privato è politico?), che questo ritorno alla realtà concreta, anche minima, ha per tutti noi tanto più oggi, in cui non solo i grandi cambiamenti sociali, ma anche i leggeri smottamenti di valori e di significati, dalla famiglia al sesso ai rapporti intergenerazionali, si rivelano in tutta la loro drammaticità proprio nella vita di tutti i giorni, nei “nostri” luoghi più privati, tra i banchi di scuola (dove aumentano le violenze e i conflitti privati interstudenteschi, o tra studenti e professori, e diminuiscono invece quelli “politici”) o all’interno delle mura domestiche (dove aumenta il disagio e la violenza psicologica); o come, a proposito di anticipazioni, nel ricorso (e nel ritorno) ad una forma d’arte che sia riconoscibile a tutti, che sia aderente alla realtà giovanile non solo dal punto di vista dei temi trattati, ma anche da quello della tecnica e dello stile: non una tecnica forzatamente “contemporanea” (come le miriadi di fotografie o di video di cui le gallerie cosiddette “di tendenza” hanno riempito le fiere in questi anni, e già ormai in via di sparizione), quanto piuttosto una tecnica insieme colta e popolare, con più livelli di lettura incrociati: antica e raffinatissima dal punto di vista dello stile (la terracotta, appunto, quella della grande tradizione lombarda), ma straordinariamente popolare e “giovanile” nel suo rincorrere le mode correnti, nel suo mimare perfettamente (nei colori e nelle fogge) i vestiti delle ragazzine della strada e nel suo mimetizzarsi fatalmente con le mille figurine e i mille personaggi rintracciabili nei negozi di giocattoli e di modellismo le tante piccole dee pagane uscite dai giochi di ruolo, i gladiatori fantasy creati, con maniacale precisione, dai mille anonimi artigiani dei giochi per ragazzi, le straordinarie lolite mutuate dalle pagine dei manga giapponesi che fanno impazzire milioni di adolescenti in tutto il mondo.
Ultimamente, però, questa fedeltà cronachistica a certi ambienti e situazioni giovanili è sembrata in parte svanire, in favore di un’accentuazione del registro ironico da una parte, e di una sempre maggiore stilizzazione, che ha nel liberty, oltre che nel pop (ma anche in certa estetica romantica e preromantica), il suo debito col passato.
Una stilizzazione che di recente si è infiltrata anche nella scelta dello stesso materiale utilizzato dall’artista: non più solo e unicamente la terracotta, ma anche la resina, utilizzata per creare sculture volutamente identiche una all’altra, in serie limitata (di soli 4 o 5 esemplari, in genere), colorati ciascuno in maniera differente, per accentuare, con un senso sempre più forte di spiazzamento, il carattere “seriale” imposto dalla moda sugli adolescenti, il loro, forse inevitabile, conformismo in una società che sul marchio e sulla griffe (dunque sull’appiattimento) ha basato gran parte della sua esistenza.
“In fondo”, dice l’artista, “non sono irreali, sempre più irreali, anche le modelle che vediamo ogni giorno sulle pagine delle riviste? Magre al limite dell’anoressia, truccatissime, diafane, quasi dei fantasmi, dei replicanti. E altrettanti replicanti sembrano le adolescenti che cercano di imitarle”.
Cassarà è così, oggi, insieme un cantore dell’universo giovanile dal suo interno e un suo tutt’altro che acritico osservatore, un protagonista della rivoluzione del made in Italy e uno spietato analista dei suoi infiniti conformismi.
È, soprattutto, uno scultore raffinato e un artista iperpopolare, che parla ai ragazzi della sua età e a quelli delle generazioni sotto di lui con un linguaggio insieme estremamente semplice e complesso, come solo agli artisti davvero originali riesce naturalmente di fare.

Alessandro Riva, “Semidee in forma seriale” in Paolo Cassarà, a cura di Alessandro Riva, catalogo della mostra, Marella Arte Contemporanea, Milano 2002.

Chiara Canali

La vicenda della Pietà censurata

L’episodio mediatico che più ha portato alla ribalta il lavoro di Paolo Cassarà in questi ultimi anni è risultato essere la partecipazione alla controversa e chiacchierata mostra Arte e omosessualità, ideata e promossa dall’allora Assessore alla Cultura di Milano, Vittorio Sgarbi.

L’artista compariva con la Pietà, una scultura in terracotta policroma di media grandezza che rappresenta una donna seduta, in abbigliamento maschile, nell’atto di stringere in grembo una bambola gonfiabile. L’opera è stata subito incriminata dalla stampa come “Pietà lesbica” (Maurizio Giannattasio, Corriere della Sera, 12 luglio 2007) e viene censurata dal Sindaco Letizia Moratti, assieme ad altre due opere (Miss Kitty di Paolo Schmidlin e la foto modificata di Silvio Sircana) preordinando la chiusura della mostra a Milano dal giorno successivo all’inaugurazione, se non fosse stata spurgata dalle opere ritenute indecorose.

Nella bagarre interviene perfino l’On. Silvio Berlusconi, chiamato in causa da Sgarbi per mediare nei confronti della censura di “Suor Letizia”, che propone una scappatoia: eliminare dall’esposizione solo un’altra ed ultima opera, seppur significativa: la scultura di Cassarà (proprio lei!), per la sua interpretazione “lesbo” (Maurizio Gianattasio, Corriere della Sera, 14 luglio 2007). La mediazione, tuttavia, fallisce e Sgarbi, indignato, decide trasferire in toto la mostra in un’altra città italiana (Palazzina Reale presso la Stazione FS di Santa Maria Novella a Firenze. N.d.R.).

Pubblicata e citata giorno dopo giorno, per quasi un mese, nelle pagine di cronaca dei quotidiani nazionali (dal Corriere della Sera a Repubblica, dal Giornale al Giorno, da Libero a Metro), la Pietà di Cassarà è risultata essere oggetto di discussioni e reinterpretazioni perché ritenuta blasfema e scandalosa. D’altronde, la provocazione è stata ricercata e voluta dall’artista stesso per trasmettere un messaggio di protesta nei confronti della Chiesa e della classe politica (Armando Stella, Corriere della Sera, 15 luglio 2007). Sul magazine Made, così Paolo Cassarà confessa le sue vere intenzioni: “Nel preparare l’opera ho volutamente puntato sulla provocazione attraverso la sua simbologia e con la citazione indiretta di una nota iconografia religiosa. Il mio intento originale era quello di provocare in modo costruttivo per sensibilizzare il pubblico sul tema dell’omosessualità e non certo per fare una forma di promozione personale”. La scultura nasce dalla volontà di giocare con la simbologia classica della Pietà, ma non si vuole sovrapporre alla celebre opera omonima di Michelangelo. “Il lavoro – continua l’artista – si può interpretare secondo livelli diversi e non solo lesbo o religioso. Nelle mie intenzioni c’è una denuncia sui disagi della società attuale: un’allegoria sulla mercificazione della donna, considerata alla stregua di una bambola gonfiabile, sulla decadenza dei rapporti e del sesso, sulla solitudine che pervade le persone”.

Certamente nell’opera è presente una buona dose di ambiguità nello scambio dei ruoli delle due figure androgine, ma l’introspezione nell’universo della femminilità è sempre stato uno dei cardini della ricerca dell’artista, che qui affronta con ironia e una vena quasi “comica” (Vittorio Sgarbi) il ruolo della donna sottratta alla sua funzione di generare una prole, una donna alienata nella stessa percezione del proprio corpo che diventa simbolo e oggetto di consumo in senso nuovo.

Vade Retro Gay!, intervista di Federico Poletti, Made 05, N. 26, Dicembre / Gennaio 2008.

Ibidem.

Vittorio Sgarbi, Vade retro in “Arte e Omosessualità. Da von Gloeden a Pierre et Gilles”, Electa, Milano 2007.

Federico Poletti

L’ARTE DELLO SCANDALO

In seguito alla valanga di polemiche e dibattiti, riapre -questa volta a Firenze- la mostra più discussa e chiacchierata degli ultimi anni: Arte e Omosessualità. Da von Gloeden a Pierre et Gilles. Dopo il curatore Eugenio Viola, Exibart ha incontrato Paolo Schmidlin e Paolo Cassarà. Due degli artisti messi all’indice da Letizia Moratti…

Dopo tante polemiche, la mostra riapre nella sua versione integrale. Cosa ne pensate? Quali sono le vostre aspettative?
Paolo Cassarà: L’entusiasmo è forse un po’ passato dopo tutto quello che è accaduto, anche se mi ha fatto molto piacere che la mostra sia stata accolta da Firenze, una città nota in tutto il mondo per la grande tradizione artistica. È certamente uno smacco per il Comune di Milano e per una città ritenuta da sempre aperta e cosmopolita. Mi auguro che la mostra nella nuova sede fiorentina sia accolta con interesse e valutata per la qualità delle opere, al di là delle polemiche. Mi piacerebbe diventasse una mostra itinerante, un progetto esportato all’estero.

Come avete vissuto questa vicenda, sia dal punto di vista umano che da quello professionale?
P.C. Inizialmente ero contento ed eccitato per tutto l’interesse che la stampa ha creato intorno all’evento, cosa che avviene raramente per il mondo dell’arte. Poi la situazione è cambiata e sono stato travolto dalla rissa mediatica, che è andata ben oltre le opere. Come artista mi sono sentito per molti versi strumentalizzato e del mio lavoro se ne è parlato troppo in modo distorto, con interpretazioni molto lontane dalle mie intenzioni. Siamo arrivati a letture delle opere univoche e paradossali, estremismi che sono arrivati a intitolare la mia opera Pietà lesbo.

Alcuni hanno pensato che sia stata un’operazione di scandalo pianificata a tavolino, un modo per alcuni artisti di promuovere la propria arte…
P.C. Nel preparare l’opera ho volutamente puntato sulla provocazione, attraverso la sua simbologia e con la citazione indiretta di una nota iconografia religiosa. Il mio intento originario era provocare in modo costruttivo, per sensibilizzare il pubblico sul tema dell’omosessualità, e non certo una forma di promozione personale.

Come avete vissuto il rapporto con l’ideatore dell’iniziativa Vittorio Sgarbi e il curatore Eugenio Viola?
P.C. Sgarbi ha fatto quello che ha potuto nel prendere le difese della mostra con grande entusiasmo, ma alla fine la situazione è sfuggita di mano. L’Assessore ha per certi versi preso il sopravvento sul curatore, prendendosi carico dell’iniziativa e di tutte le sue conseguenze. Ha

coperto il ruolo del curatore, mettendolo un po’ da parte e quindi, globalmente, c’è stato poco dialogo con loro. La spettacolarizzazione mediatica ha poi cancellato tutti i ruoli in un gran polverone polemico.

Che ne pensate del titolo della mostra, Vade Retro. Arte e Omosessualità?
P.C. Il titolo Vade Retro ha senza dubbio un tono istrionico, è uno slogan provocatorio. E come tale dev’essere inteso.

Come doveva essere interpretata originariamente la vostra opera e com’è nata l’idea?
P.C. L’idea è nata dal voler giocare su una simbologia nota a tutti. Per questo l’ho intitolata Pietà, e non come riferimento alla celebre opera di Michelangelo. La mia opera rappresenta una donna che stringe tra le braccia una bambola gonfiabile, dove è forte l’ambiguità e lo scambio dei ruoli in queste figure androgine. Il lavoro si può interpretare secondo livelli diversi e non solo in senso lesbo o religioso. Nelle mie intenzioni vuol essere una denuncia dei disagi della società attuale: un’allegoria della mercificazione della donna, considerata alla stregua di una bambola gonfiabile, della decadenza dei rapporti e del sesso, della solitudine che pervade le persone. Tutte tematiche che noi viviamo e su cui mi piaceva far riflettere.

Qual è l’aspetto della mostra che non vi è piaciuto e quale invece l’opera che vi ha fatto riflettere?
P.C. Molti i lavori validi e ricchi di spunti; l’aspetto penalizzante è stato l’allestimento. La fotografia era forse la parte del progetto che restituiva un’idea di vera e propria estetica contemporanea. Tra le foto mi viene in mente quella di Paul Smith per il grande impatto emotivo e l’effetto spiazzante.

In futuro dove vi augurate di esporre le vostre opere censurate?
P.C. La mostra meritava di essere esportata all’estero. Avrebbe potuto essere un progetto internazionale e di grande risonanza se il caos mediatico fosse stato gestito meglio. È stata un’occasione mancata. Vedremo ora cosa accadrà a Firenze. La città, da sempre culla per l’arte, è senza dubbio all’altezza e si è dimostrata molto più aperta e accogliente di Milano.

Federico Poletti

Pubblicato mercoledì 31 ottobre 2007 su Exibart.

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